mercoledì 29 agosto 2007

Garzaie sì garzaie no


Due pesi e due misure da parte della Regione Lombardia nel valutare l'impatto sulle aree protette lomelline

La Regione Lombardia inciampa sulle garzaie.

Da una parte le vorrebbe lastricare d'asfalto (autostrada Broni Mortara), dall'altra ritiene invasiva anche l'esile struttura di un traliccio (linee elettriche centrale Parona). E parliamo delle stesse aree protette, da parte dello stesso ente e nello stesso periodo. Unità di tempo di spazio e di azione come nello schema teatrale classico. Quella in cui neanche il più scalcinato autore sarebbe caduto è una così palese contraddizione.

Si veda qui di fianco l'articolo della Provincia Pavese del 4 agosto che ci informa di come la Regione Lombardia abbia dato parere assolutamente negativo all'ipotesi di costruzione di una centrale termoelettrica con relativo elettrodotto proprio perché il tragitto avrebbe tagliato a metà "una Zps ricca di garzaie e di fontanili".

Ecco un passo dell'articolo: " Per questo caso come per altri del recente passato Milano ha voluto 'preservare la biodiversità' di un luogo che offre numerosissime aree umide quali sono appunto le garzaie. Sempre in tema di aree protette la giunta Formigoni ha ricordato che il progetto di elettrodotto avrebbe atteaversato la zona di protezione speciale 'Garzaie della Lomellina', la ZPS istituita da Bruxelles attraverso la giunta regionale. Nel progetto presentato ai ministeri, infatti, i tralicci della Union Power avrebbero [delineato] un tragitto che sarebbe andato a tagliare a metà proprio una ZPS".

Ma ecco come continua il pezzo creando ancora più stupore..."Nell'esprimere parere negativo poi la Regione Lombardia ha fatto cenno alla raccolta di firme promossa dal comitato dei cittadini La nostra Parona: tre anni fa circa 900 cittadini dissero un secco no alla centrale da circa 400 MegaWatt"

E infine quasi sopraffacendo il lettore... "la Regione Lombardia ha ricordato la presenza del termo distruttore di rifiuti di due industrie chimiche e di altre realtà che appesantiscono il tessuto produttivo di Parona. 'Finalmente la Giunta Regionale, con un atto ufficiale, prende atto delle notevoli criticità presenti in Lomellina per bocciare questo impianto che non serve il territorio', commenta il consigliere regionale Lorenzo Demartini "

Ricapitolando la Regione Lombardia (lato A) ha:
1- bloccato una infrastruttura perché incideva sulle aree protette da lei stessa istituite
2- tenuto conto delle valutazioni delle popolazioni locali
3- tenuto conto della pressione in termini di impianti di vario genere già presenti sul territorio
4 -evidenziato il fatto che l'impianto non sarebbe andato a servire il territorio

La Regione Lombardia (lato B) su una infrastruttura enormemente più invasiva, come è appunto un'autostrada, rinnega tutti e quattro i punti precedenti e sostiene il progetto con ogni mezzo e con tutta l'arroganza istituzionale che è in grado di esprimere. E non è poca.
Che Union Power non abbia le aderenze e l'influenza di altri?

Ma come è triste dover scegliere ogni volta tra l'incapacità e la malafede per i nostri politici.

mercoledì 15 agosto 2007

Che ne sai tu di un campo di grano

Lo scenario è quello del defunto zuccherificio di Casei Gerola per cui si prospetta la rinascita, grazie a finanziamenti pubblici, sotto le variate forme di stabilimento per la produzione di bioetanolo.
Tutto bene, tutti contenti, anche per gli aspetti occupazionali, un unico neo: si cambia localizzazione.
Il nuovo stabilimento infatti non nascerà sulle ceneri di quello preesistente, come vorrebbe il buon senso, ma a Zinasco, una altro comune del pavese e su ottimo suolo agricolo.

Ma perché spostare lo stabilimento?
Il pretesto ufficiale è di quelli offensivi per l'intelligenza dei più, si dice infatti che la vicinanza della linea ferroviaria abbia determinato la scelta di Zinasco.
Vediamo perché l'argomento è pretestuoso.
1) La ferrovia a Casei Gerola non c'è, ma a meno di 5 chilometri c'è l'importante nodo ferroviario di Voghera, inoltre Casei Gerola dispone di uno svincolo autostradale della Milano-Genova... sembra teatro dell'assurdo, qui l'autostrada c'è, ma evidentemente non la si vuole usare, in compenso se ne vuole costruire una nuova (la Broni-Mortara) probabilmente per non usare nemmeno quella in futuro in modo da avere il pretesto per ulteriori inutili, costosissime e devastanti infrastrutture.
2) La perdita definitiva di un'altra porzione di terreno coltivabile è ben più significativa dell'inquinamento indotto dal trasferimento delle produzioni agricole dalla stazione di Voghera all'impianto di Casei Gerola. Inoltre nulla vieterebbe, per questa breve tratta, di utilizzare veicoli elettrici, o comunque a basso impatto ambientale.
3) Tutta questa attenzione al trasporto su rotaia non emerge dalle politiche delle amministrazioni locali, Regione Lombardia e Provincia di Pavia in primis, che paiono ineluttabilmente stregate dalla gomma.

Veniamo alle ragioni vere.

Nuovi luminosi destini attendono l'area dell'ex zuccherificio. Si parla infatti di "terziario avanzato".
Forse un centro di ricerca sulle telecomunicazioni? O alleanze università-impresa per definire nuove metodologie produttive? Meglio... molto meglio... verrà infatti realizzato... UN OUTLET!
Nel nome delle "grandi firme", vero modello culturale dell'Italia di oggi, centocinquanta negozi, forse duecento, tutti "griffati", si sostituiranno ai macchinari e ai residui di lavorazione delle barbabietole.

Se vogliamo chiamare le cose con il loro nome si tratta di "terziario antiquato"...ma come si sa siamo bravi a giocare con le parole.

Quindi ricapitolando è la solita questione di soldi.
1) Italia Zuccheri prende i soldi UE per la bonifica del terreno
2) Vende il terreno di Casei destinato al "terziario avanzato" con cospicui ricavi
3) Con 3 lire si compra il terreno agricolo a Zinasco
4) Sempre con finanziamenti UE sul terreno agricolo realizza lo stabilimento per la produzione del bioetanolo
5) La produzione comincia, dal 2010, e sarà sostenuta da incentivi pubblici

Il problema sta ai punti 2 e 3. E' una responsabilità della politica far sì che non sia conveniente bruciare suolo agricolo quando c'è a disposizione un'area dismessa perfettamente utilizzabile.

Notate che tutto starebbe in piedi comunque, e che con una tale messe di finanziamenti pubblici i rischi per l'imprenditore si annullano.
Da Roma deve ancora arrivare l'ok definitivo, l'ultima speranza di un ravvedimento che preservi il territorio non cementificato risiede presso il Ministero delle Politiche Agricole. Sarebbe un bel segnale in un contesto in cui prevale l'inciucio affaristico a scapito dell'ambiente.

In tutto questa situazione non si capiscono le dichiarazioni trionfali del sindaco di Zinasco per il primo impianto industriale del paese.
Porterà sicuramente molti problemi, rumore, inquinamento, paesaggio penalizzato. Posti di lavoro nessuno perchè sono destinati agli ex dello zuccherificio, il sindaco allude all'indotto...ma non si capisce quale indotto possa portare qualche decina di pendolari da Casei Gerola... se va bene si potrà aprire un bar.

Domanda per il sindaco di Zinasco ... ma se non ce la avete mai avuta un'industria in paese, siete proprio sicuri di volerne una?

Ulteriore considerazione. Tra gli effetti dell'apertura dell'outlet, la crisi certa per i negozi di abbigliamento, scarpe, accessori della zona di Casei Gerola non sembra interessare nessuno.

P.S.
Ovviamente anche in questo caso la manovra è stata condotta in perfetto stile abellian-formigoniano e non ha visto il coinvolgimento delle comunità locali. Queste sono state informate a decisione presa.

Quando impareranno?

mercoledì 8 agosto 2007

Miracolo in piazza Italia!! La Provincia si accorge che ci sono troppe logistiche

Ma dopo avere approvato la Broni - Mortara, l'infrastruttura madre di tutte le logistiche, riesce difficile interpretare l'attuale presa di posizione.

San Siro concede la grazia! Apprendiamo infatti che la Provincia si mette a fare le pulci alla logistica. Ma non solo, rivendica anche una specie di primogenitura in questo ruolo, lamentando però scarso credito presso i Comuni.

La questione in sintesi è questa (cliccate sull'articolo per ingrandirlo). La Provincia non approva le nuove proposte di logistica per Landriano e per Vellezzo Bellini, chiama quindi in causa la Regione per bloccare l'iter dei nuovi insediamenti.

Già, perché in prima battuta il Comune di Landriano ha fatto notare, tramite il suo legale, che la Provincia non è competente sulla questione della nuova logistica, peraltro piazza Italia ribatte che la competenza c'è essendo una strada provinciale l'arteria sulla quale insisterebbe il surplus di traffico.

Al di là del caso specifico non stupisce la mancanza di carisma della Provincia. Dopo aver sostenuto in modo acritico la realizzazione della "madre di tutte le logistiche" e cioè la famigerata autostrada Broni - Pavia - Mortara, riesce infatti difficile spiegare ai vellezzesi perchè tutti se la prendano coi loro miseri 200.000 metri quadri di suolo agricolo a cui cambiare destinazione quando nessuno fa una piega nel consumarne 4.000.000 (4 miloni) attraversando risaie, parchi, zone protette, più altri 3.000.000 (3 milioni) con i due interporti di Mortara e Bressana Bottarone, più un effetto domino di opere aggiuntive, non precisamente quantificabile oggi, ma di certo profondamente invasivo.

Acriticità di giudizio da parte della Provincia che ha riguardato non solo il merito dell'opera, peraltro contestabilissima (dubbia utilità, costi eccessivi, danni ambientali sproporzionati, modello di sviluppo anni '60), ma anche per il metodo, tutto stratagemmi, furbizie e promesse non mantenute adottato dalla Regione. La Provincia ha appoggiato tutto, sempre e comunque. Mai un dubbio, mai una voce di dissenso.

Perché tutto questo rigore adesso e la voce grossa coi "piccoli"? Ci sono forse meno pressioni esterne su questi progetti e si può finalmente tornare a svolgere con coscienza il proprio compito? O forse è necessario creare un precedente per poter dire tra qualche tempo che anche la Provincia aveva lanciato il grido d'allarme? Oppure si credeva di poter controllare il fenomeno, e si è finiti come chi volendo bruciare gli sterpi si ritrova tra le mani un incendio?

Perché il solito desolante chiudere la stalla quando i buoi sono scappati? Perché è così difficile vedere che gli equilibri si stanno rompendo, che stiamo diventando un'altra cosa da quella che eravamo e che non l'abbiamo scelto noi, che i fantasmi di Rozzano e dell'hinterland milanese, urbanisticamente parlando, incombono?

Perché la Provincia pur non avendo redatto il piano per la logistica che le compete ha consentito che le strutture logistiche si insediassero capillarmente?
E questo atteggiamento non vuol dire in realtà avere un piano per la logistica, e avercelo ben chiaro?

P.S.
Il giorno successivo Poma, presidente provinciale, precisa, con una lettera alla Provincia Pavese, di non essere mai, comunque e in nessun caso contro Formigoni (e c'era da precisarlo?), inoltre: "chiede di poter avere strumenti più efficaci di pianificazione delle varie infrastrutture sul territorio, attraverso prescrizioni vincolanti che non riguardino solo la salvaguardia paesaggistica-ambientale" (come dire che sulla salvaguardia gli strumenti ci sono e sono sufficienti... evidentemente quindi tutto si riduce ad un puro esercizio accademico, gli piace l'idea di averli a disposizione ma forse teme che adoperandoli si possano usurare).

martedì 7 agosto 2007

Buoni maestri e parole al vento. Antonio Cederna - 1987

Grazie a http://eddyburg.it/article/view/9421/

Scritto esattamente vent’anni fa (luglio 1987). I dati andrebbero aggiornati, le valutazioni dovrebbero essere ribadite

In Italia abbiamo sempre avuto buoni maestri, però non li abbiamo mai ascoltati.

Da: Cederna A.- Santucci A.- Scolaro G., Il "rovescio"della città, Introduzione di Emiliani A., Bologna, Labanti e Nanni, 1987

Perché in Italia è così difficile proteggere l’ambiente e la natura, e utilizzare in modo ragionevole il territorio?

Chi oggi intraprendesse il grand tour potrebbe alla fine scrivere quella “guida dell’Italia alla rovescia” di cui da gran tempo si sente la mancanza, in cui illustrare i maggiori scempi e disastri: pinete litoranee lottizzate, aree archeologiche insidiate dall’edilizia, mare in gabbia e coste trasformate in congestionati suburbi, fiumi ridotti a cloaca, colline e corsi d’acqua devastati dalle cave, case e industrie costruite in zone franose, preziose zone umide trasformate in campi di patate, monumenti famosi incastonati fra i casamenti della periferia, boschi abbandonati, montagne scorticate e ricoperte da fili e tralicci, pendici di vulcani urbanizzate, parchi nazionali occupati da condominii e tagliati da strade rovinose, scarichi fumanti di rifiuti, la macchia mediterranea privatizzata dal reticolo edilizio, e via dicendo. Un insensato sparpagliamento del costruito elimina ogni distinzione tra città e campagna, annulla ogni identità fisica e storica, un’ininterrotta crosta di cemento e asfalto va man mano sostituendosi alla crosta terrestre.

E il lettore verrebbe a sapere che in vent’anni ben tre milioni di ettari di terreno agricolo (un decimo dell’Italia) sono stati fatti sparire, e che se non si pone rimedio si può prevedere che tra cent’anni tutta l’Italia verde sarà scomparsa. Che da questo saccheggio (ispirato alla più completa ignoranza delle caratteristiche di paesaggio, territorio, suolo) deriva in gran parte il dissesto idro-geologico che ci affligge, le alluvioni bi-trimestrali, le tremila e più frane all’anno (un morto ogni dieci giorni). Che da anni imperversa il più folle spreco edilizio, per cui abbiamo ottanta milioni di stanze per 56 milioni di italiani, mentre sempre più acuta è la crisi degli alloggi (ma ben quattro milioni sono gli alloggi vuoti), senza parlare del flagello dell’abusivismo, per cui nel Mezzogiorno due case su tre sono fuori legge.

Che l’Italia è alla coda della graduatoria universale per quanto riguarda aree protette (solo l’1,5 per cento del territorio, contro medie del 10 per cento negli altri paesi, terzo mondo compreso).

Che non un solo parco pubblico degno del nome è stato realizzato nelle città, per il riposo, la ricreazione, il tempo libero di giovani e adulti, mentre grandiose realizzazioni sono in corso in tutta Europa, da Vienna a Parigi a Monaco, eccetera.

Le radici di questa arretratezza sono profonde e diffuse. Troppi politici e amministratori considerano anche il territorio come merce da barattare, terra di nessuno ovvero proprietà di chi riesce ad arraffarlo. Il mondo accademico (che pomposamente si definisce “comunità scientifica”) è assorto nei propri pensieri, ossequioso verso il potere, incapace salvo eccezioni di azioni coraggiose. Gli uomini di cultura sono da sempre indifferenti ai problemi della vita associata, e considerano “anime belle” chi si batte per la difesa dell’ambiente. Gli addetti ai lavori, architetti e urbanisti, salvo una valorosa minoranza, disprezzano la cultura della conservazione e smaniano di lasciare ovunque la propria “impronta”, spropositando che senza architettura la natura non varrebbe niente. La stampa, per quanto più attenta di una volta, è vittima del culto demenziale della notizia, e “notizia” significa fatto clamoroso, catastrofe, incendio, alluvione, eccetera, per cui troppo spesso si riduce a semplice registrazione tardiva di fatti compiti, con tanti saluti all’altro culto sbandierato, quello dell’attualità. Quanto alla scuola sappiamo il poco che si fa per educare i giovani al rispetto, alla conoscenza, al giusto comportamento.

Al fondo di tutto ciò ci dev’essere una qualche radicata malformazione culturale. Semplificando si può dire che le principali componenti della nostra cultura non hanno dato buoni frutti. L’idealismo ci ha insegnato che la natura non esiste, che il paesaggio è uno stato d’animo, cioè un’apparenza soggettiva e inafferrabile. Il cattolicesimo (ovvero, la tradizione giudaico-cristiana) ha dissacrato il concetto che della natura aveva il mondo classico, e ne ha fatto despota l’uomo. Il marxismo ha per troppo tempo sottovalutato i problemi del territorio, considerandoli sovrastrutturali, e rimandandone la soluzione alla palingenesi universale. Il risultato è la convinzione, fatta propria dalla moderna società industriale, che il progresso si identifichi con l’urbanizzazione a qualunque costo, il benessere con la crescita continua della produzione, e quindi con il cieco consumo delle risorse, spazio, suolo, territorio, ritenuti pressoché illimitati.

Se le cose stanno così, c’è spesso da chiedersi come sia possibile prendersela troppo con la maleducazione della gente qualunque, che sporca, getta la cicca accesa, strappa i fiori, malmena gli animali domestici e stermina quelli selvatici, sega gli alberi davanti alla casa per “vedere il panorama” (che nei giochi di parole crociate è definito “soggetto per cartoline”); o prendersela troppo con gli amministratori del villaggio, ultimi esponenti di un’incultura generalizzata, tutta intrisa di disprezzo per l’ambiente naturale, considerato oggetto di violenza. Chi mai direbbe che siamo il paese di San Francesco, il santo più immeritato e meno italiano, che ha detronizzato l’uomo dal suo dominio sulla natura e ha predicato la tenerezza, la fratellanza con ogni altra cosa animata e inanimata, che predicava agli uccelli rapaci, raccoglieva da terra le lumache perché non venissero calpestate e raccomandava di lasciare in ogni orto un pezzo di terra non coltivata perché potessero liberamente crescere le erbacce.

Non tutto è nero, certo. Cresce la “domanda di natura”, si organizzano gruppi di pressione su singoli problemi, fervida è l’attività delle associazioni protezionistiche, la magistratura interviene più frequentemente, una legge recente ha esteso il vincolo ambientale a intere categorie di beni (coste marine, fiumi e laghi, boschi e foreste, montagne al di sopra di una certa quota eccetera): ma è necessario intensificare l’azione per immunizzare la gente contro i perniciosi demagogici luoghi comuni diffusi da tutti coloro che dal saccheggio del territorio traggono le loro fortune.

Dicono ad esempio che la difesa dell’ambiente naturale costi troppo: quando la verità è esattamente il contrario, perché è la mancata opera di prevenzione o tutela che rovescia sulla collettività ingenti costi sociali: basta pensare ai tremila miliardi di danni che ogni anno ci procura il dissesto idrogeologico, o a quel che costa, per ricordare un disastro recente, l’inquinamento dell’Adriatico, che annienta la pesca e scaccia i turisti.

In realtà, la difesa della natura rende molte volte di più di quello che costa. Il turismo di soggiorno ed escursionistico promosso dalle aree protette e dai parchi arreca benefici economici duraturi alle popolazioni: il milione di visitatori del parco d’Abruzzo mette in giro quaranta-sessanta miliardi l’anno; e si è calcolato che, qualora venissero istituiti i parchi nazionali da tempo annunciati, sarebbero trentamila i posti di lavoro, diretti o indotti, che verrebbero creati (ma ancora si aspetta l’altra legge fondamentale, quella in difesa della natura e per l’istituzione di parchi e riserve). Senza dire dei benefici non monetizzabili, il valore infinito delle risorse e degli equilibri naturali più segreti e complessi, essenziali sia alla sicurezza del suolo sia all’elevazione culturale: perché a tutti sia concessa quell’esperienza liberatoria che è la contemplazione, la comprensione, lo studio dell’ambiente incontaminato. Gli sciocchi dicono che “non si deve mummificare la natura”, come si trattasse di un cadavere: mentre la natura è un laboratorio formicolante di vita che solo la conservazione può garantire: una vita, quella dei pesci, degli aironi, degli stambecchi, delle farfalle, dei lombrichi eccetera, dalla quale dipende per direttissima la vita degli uomini.

Dobbiamo dunque impegnarci per favorire una drastica riconversione culturale, basata su alcuni principî elementari. Suolo, territorio, ambiente sono una risorsa scarsa, limitata per eccellenza, da utilizzare con estrema parsimonia e rigore scientifico.

Non è possibile un autentico progresso economico e sociale senza una preventiva, lungimirante costante politica ecologica che metta fine agli sprechi e quindi ai costi della degradazione ambientale e dell’inquinamento: continuare a consumare le risorse col criterio dell’“usa e getta” è semplicemente suicida.

D’altra parte, la risorsa scarsa, limitata, irriproducibile per eccellenza è il suolo, il territorio: ogni sforzo dunque va fatto per porre fine al consumo irresponsabile che ne è stato fatto in decenni di sprechi, leggerezze e saccheggi.

Se si continuasse col passo attuale della cieca espansione edilizia, stradale, industriale eccetera, tra poco più di un secolo tutta l’Italia sarebbe ricoperta di una continua, ininterrotta, repellente crosta edilizia e di asfalto, tale da distruggere ogni produttività agricola e cancellare la stessa fisionomia paesistica, naturale, culturale di quello che fu chiamato il Bel Paese. Bisogna dunque che coll’aiuto di urbanisti ambientalisti ecologi, le pubbliche amministrazioni (comuni, provincie, comunità montane, regioni eccetera) si decidano a fare sistematicamente i conti, a fornire cifre relative al consumo di suolo e territorio perché tutti possano rendersi conto del disastroso traguardo che ci sta davanti se non si cambia rotta: un’Italia a termine, destinata ad essere consumata e finita nelle prossime tre o quattro generazioni.

Gli amministratori sono restii a fare calcoli e a fornire le cifre, perché sono un essenziale strumento di conoscenza che può mettere in crisi il partito dei saccheggiatori: ma qualcuno ha cominciato a informare la pubblica opinione. I dati sono ancora parziali: ma come le “proiezioni” fatte alla televisione dopo la chiusura dei seggi elettorali esaminando un numero assai limitato di schede, già possono dare attendibili indicazioni su quello che sarà il risultato finale. Dunque, dai calcoli del CENSIS coi dati dell’ISTAT, risulta quanto segue.

Il suolo agricolo utilizzabile nell’ultimo decennio è diminuito del 9,4 per cento, perché distrutto dall’avanzare dell’urbanizzazione o perché abbandonato.

Regione per regione, è diminuito dell’8 per cento nel Veneto e in Lombardia, dell’11 per cento in Calabria, del 12 per cento in Liguria, Piemonte e Sicilia, del 16 per cento in Sardegna, del 17 per cento nel Friuli-Venezia Giulia. Nell’ultimo trentennio le aree non più classificabili come utilizzabili a fini produttivi hanno raggiunto la dimensione di circa 5 milioni di ettari (una superficie pari a Piemonte più Lombardia): il consumo è proceduto a un ritmo medio di 150.000 ettari all’anno.

In particolare, le aree metropolitane, cioè urbanizzate, sono raddoppiate: l’espansione delle città ha divorato la campagna al ritmo di 25-35.000 ettari all’anno. In sintesi, come ha calcolato Giuliano Cannata della Lega Ambiente, dal ’70 all’81 i terreni perduti, perché abbandonati o occupati da edifici, strade, industrie, cave, discariche eccetera, sono passati dal 12,5 al 20,6 per cento del totale, pari a consumo medio dello 0,7-0,5 per cento all’anno: nell’ultimo ventennio circa 3 milioni di ettari di terreni agricoli sono andati distrutti (e sono un decimo dell’Italia). Come dire che se si continuasse ad andare avanti così, “tutto il territorio italiano, dal Cervino a Capo Passero, sarebbe finito in poco più di cento anni”.

Questa prospettiva suicida è il risultato di quella distorsione mentale che il CENSIS chiama “rimozione del territorio”. Con incoscienza l’abbiamo considerato come un vuoto da riempire, una res nullius, un oggetto di baratto e una fonte di lucro: i comuni hanno confezionato strumenti urbanistici grottescamente sovradimensionati, senza alcun rapporto coi reali fabbisogni, praticamente considerando tutto edificabile. Qualcuno ha calcolato che se si sommassero le cubature previste dai piani regolatori e programmi di fabbricazione, l’Italia risulterebbe capace di ospitare, sulla carta, una popolazione superiore a quella degli Stati Uniti o dell’Unione Sovietica.

Il deprimente spettacolo che offre il nostro Paese è sotto gli occhi di tutti. Un inverecondo sparpagliamento edilizio sommerge pianure e colline, abolendo ogni distinzione fra città e campagna, e sommerge le aree agricole, nel disprezzo per gli aspetti paesistici, per l’ambiente naturale. L’edilizia dilaga a nastro lungo le strade, a ragnatela nelle periferie urbane: al costruito si accompagna l’asfalto, le discariche di rifiuti, i terreni vaghi, degradati, l’abbandono (a ogni ettaro costruito ne corrisponde mediamente un altro in attesa di essere liquidato).

È il “deserto abitato” che avanza nel disordine totale, rendendo a poco a poco irriconoscibile l’Italia: una clamorosa smentita alle regole elementari del vivere associato, un’incolta irrisione a ogni norma elementare di pianificazione urbanistica, un crescita dissennata che aumenta paradossalmente proprio mentre cala l’incremento demografico.

Due sono le indagini recenti che danno un’idea drammatica della situazione: una riguarda l’area metropolitana milanese e la Lombardia in generale, l’altra la provincia di Roma. Come è stato documentato recentemente dal “Centro documentazione e ricerche” della regione Lombardia, nell’area metropolitana milanese (oltre un centinaio di comuni, 180.000 ettari) il consumo di territorio ha ormai raggiunto il 33 per cento, in nove anni (1963-1972) ne è stato distrutto più che nel secolo precedente, e si procede al ritmo dell’1 per cento all’anno, anche se è finita la grande espansione economica e demografica. Il piano territoriale comprensoriale ha posto dei limiti alle previsioni comunali, e si propone di contenere l’espansione complessiva entro il 50 per cento, entro il duemila, che è già una “soglia di allarme”: se invece le cose continuassero ad andare per il verso sbagliato, osserva Gianni Beltrame, direttore del comprensorio, tutto il suolo verde e agricolo dell’area metropolitana milanese sarebbe finito entro 67 anni.

Al consumo di territorio per incontrollato avanzare di urbanizzazione, si aggiunge quello dovuto al degrado (brutta parola diventata ormai di uso comune), cioè a quell’insieme di interventi in vario modo offensivi e distruttivi, che vanno dall’attività selvaggia delle cave alle discariche di rifiuti all’isterilimento del suolo nelle sudicie frange periurbane. Come ha osservato l’economista Mercedes Bresso al convegno, in Lombardia le cave, “vera e propria industria del dissesto”, compromettono circa 20.000 ettari, pari al 2 per cento della superficie regionale. Ad essi va aggiunto un 1-2 per cento di discariche e di depositi di rifiuti, più un 8 per cento di “degrado diffuso” (spazi compromessi da utilizzazioni precarie, fasce di rispetto stradale, variamente occupate, depositi di materiali industriali, fabbricati in stato di abbandono eccetera): si arriva così all’11-12 per cento di territorio degradato, pari a circa 100.000 ettari, quasi il 10 per cento del suolo utile lombardo. Disordine, spreco, inquinamento delle falde idriche, erosione del suolo, distruzione di terreno agricolo: quanto costa il risanamento, il ripristino, il recupero di un terreno così devastato? Si valuta che il costo sarebbe di 35-40 milioni ad ettaro: quindi, in Lombardia occorrerebbe spendere 3.500-4.000 miliardi, che diventano almeno 10.000 se l’operazione venisse estesa ai casi che richiedono interventi complessi (sgomberi, abbattimenti, eccetera). Ecco quali sono i costi sociali scaricati sulla collettività dal saccheggio del territorio.

Altri dati allarmanti vengono forniti dall’indagine condotta dall’Assessorato al bilancio e alla programmazione della Provincia di Roma, circa le destinazioni d’uso previste dagli strumenti urbanistici dei 118 comuni che la compongono. Il risultato è che, senza contare Roma, è prevista l’edificazione (tra zone di espansione, di completamento e turistiche) di 2.300.000 stanze per altrettanti abitanti: se si aggiungono i 7-800.000 vani residui previsti dal piano regolatore di Roma (tra edilizia privata e pubblica) si arriva a più di 3 milioni di stanze: come costruire ex novo un’altra Roma accanto all’esistente. A tanto più giungere il sonno della ragione, l’allegra incoscienza urbanistica (intanto, da anni, il territorio della provincia romana viene consumato al ritmo di tre ettari al giorno).

La prospettiva è dunque certamente catastrofica: il “giardino d’Europa” corre alla rovina, e rischia di essere tutto consumato entro poco più di un secolo, a meno che mentalità, cultura e politica non cambino radicalmente. Che fare? Occorre mettere finalmente da parte il mito anacronistico, folle e rovinoso della crescita illimitata fatta solo di sprechi, e decidersi a considerare il territorio come il bene più prezioso perché scarso e limitato, quindi come bene collettivo da conservare gelosamente. Non si salva ciò che non si conosce: è urgente impegnarsi alla conoscenza scientifica del territorio e del suolo nei loro aspetti produttivi, fisici, geo-morfologici, ambientali, paesistici, naturalistici (uno studio del genere è stato fatto dal comune di Padova), e imparare a rispettarli.

Dobbiamo rovesciare il nostro modo di agire: non più urbanizzare alla cieca risparmiando eccezionalmente (quando pure a fatica ci si riesca) qualche area eminente, ma trattare tutto il territorio come un parco in linea di principio inedificabile, alla cui rigorosa salvaguardia subordinare ogni eventuale intervento. Altrimenti assisteremo alla distruzione del nostro stesso spazio di vita, e a poco a poco la terra ci sarà strappata di sotto i piedi.



domenica 5 agosto 2007

La Commissione Europea contro l'autostrada baltica...questione di SIC

Dal sito di Repubblica (altre spendide immagini cliccando sul link).

"Nuovo braccio di ferro tra l'Unione europea e il Governo polacco. La Commissione Ue ha chiesto alla Corte di giustizia europea un provvedimento urgente per bloccare la costruzione della Via baltica, l'autostrada che dovrebbe collegare Varsavia a Helsinki. Il progetto approvato dalla Polonia prevede che la strada attraversi la Rospuda Valley, il Parco nazionale delle paludi di Bierbza e la foresta di Knyszyn. Ma queste zone sono classificate dall'Ue come Sic (Siti di importanza comunitaria), perché habitat naturale per linci, lupi e aquile."

L'autostrada in questione attraversava delle SIC... la Commissione Europea dice che non va bene, andando anche contro il parere del governo nazionale polacco. Elementare Watson.

Anche i progettisti della famigerata Broni-Mortara hanno avuto la stessa svista, tagliando in due un paio di garzaie e sfiorando altrettante SIC, probabilmente contando sul fatto che in Italia è normale fare le leggi sapendo che poi queste potranno essere aggirate, soprattutto se c'è di mezzo la parolina "sviluppo" (ricordiamo che anche le garzaie in Lomellina sono state istituite da Bruxelles tramite la giunta regionale).
L'approccio più teutonico della Commissione Europea, per cui una regola è una regola, li spiazzerà. Ottima notizia invece per i Comitati contro l'autostrada Broni-Mortara, con la certezza di poter contare su un analogo richiamo della Commissione Europea se l'iter dell'autostrada dovesse procedere.

Speriamo anche che l'Ente Parco del Ticino recuperi un po' del coraggio smarrito e si attivi per la difesa del territorio che istituzionalmente ha il compito di preservare.


Autostrada in Polonia su Ecoblog
L’Ue blocca la strada del Baltico su La Stampa
Poland defies move to block road through protected forest on The Times
Poland halts wetlands road plan on BBC

giovedì 2 agosto 2007

La fortuna di amministrare Bressana ... quando il sindaco gioca a nascondino


Riassunto delle puntate precedenti
Qui (La fortuna di amministrare Bressana) un commento all'articolo della consegna delle firme dei cittadini di Bressana Bottarone contro interporto, logistica e autostrada, con un sentimento di "invidia istituzionale" rosicavo per la fortuna sfacciata del Sindaco che non doveva arrovellarsi sull'opinione dei suoi concittadini perchè gliela avevano addirittura sottoscritta.
Qui (La fortuna di amministrare Bressana... senza rendersene conto) la lista civica "Insiene" completava il quadro della situazione chiarendo però che il sindaco Latella non sembrava gradire tutta questa democrazia. Egli aveva infatti dichiarato di sperare nel "piano provinciale", ma lo diceva per la prima volta solo dopo la raccolta firme, mai era emersa questa posizione in una occasione ufficiale. Ad oggi inoltre non sembra aver cambiato idea visto che mantiene la sua opinione rispetto alla proposta di logistica "che è un'occasione che Bressana non può perdere", mentre dell'Interporto (o "Villaggio delle merci dell'Oltrepo") non ritiene di parlarne, visto che "il progetto non è mai stato presentato al Comune".

La mia esperienza personale è stata questa. In due occasioni ufficiali dedicate alla pianificazione territoriale ed al futuro che i Bressanesi vorrebbero per il loro paese il sindaco, semplicemente, non si è presentato. Nel primo caso, alla presenza tra gli altri del metereologo Mercalli e del giornalista Boatti, centinaia di persone riempivano la sala, nel secondo caso veniva finalmente ipotizzato un modello di sviluppo che non fosse basato sul sacrificio sistematico del territorio e sulla logistica. Due occasioni molto importanti insomma, mancavano solo le istituzioni.

Ma una volta i politici non erano presenzialisti?

Caro Sindaco... che dire. Cosa devono fare i suoi poveri concittadini? Come possono cercare di farle capire che altro cemento e altro asfalto non li vogliono? Pensi anche al suo ruolo politico, insomma, lei rappresenta questa gente non si può sostituire ad essi. Quante volte le devono dire di no?

Siamo tra l'altro nel campo delle scelte senza ritorno. Sulla nuova destinazione, ad esempio, di edificio comunale esistente, se si sbaglia si può anche rimediare. Ma prendersi altri 600.000 metri quadri di campagna per costruire l'ennesimo polo logistico è un sacrificio senza appello di risorse collettive. E come tale è doveroso discuterne e attenersi al parere della comunità. Oltre che naturlamente coinvolgere i paesi vicini, visti gli inevitabili riflessi sulla salute di tutti, dovuti al passaggio di migliaia di TIR in più ogni giorno. Nonchè al peggioramento della viabilità, sempre per lo stesso motivo, che potrebbe costringere a realizzare altre strade, nonche allo "sprawl" che innescherà un processo a catena di urbanizzazione lasca e all'ennesimo stupro del paesaggio rurale.

E il suo futuro politico, vuole passare il resto del mandato a evitare il confronto democratico, vuole rendersi non rieleggibile, bruciarsi la carriera per avere sostenuto ormai contro ogni logica e contro il consenso popolare una idea perdente? Un politico quando è tale riesce a cambiare cavallo in corsa e a farlo con eleganza.

La aspettiamo anche alla seconda conferenza dei servizi sulla Broni - Mortara.
Ovviamente per un voto contrario. Coraggio Sindaco.

L'incredibile buon senso dei "sovversivi" della NO-TAV


Buon senso che spesso latita nelle pubbliche amministrazioni nostrane. Col crescere della base d'asta diminuisce la capacità di discernere.


Ecco alcune delle tesi esposte.

Concetto n. 1
In val di Susa l'attuale linea ferroviaria vede il passaggio di 74 treni al giorno
Gli esperti hanno stimato che potrebbe consentire il passaggio di 226 treni/giorno.

Nel 2006 sono transitate merci per 6,4 milioni di tonnellate, erano 10 milioni alcuni anni fa, quindi un netto calo del trasporto su ferro.
Se ne potrebbero far transitare 32 milioni di tonnellate. Che senso avrebbe con questi numeri una nuova costosissima infrastruttura?

Come si può sostenere che il nord Italia è tagliato fuori se potrebbero essere messi in campo 50 nuovi treni merci domani mattina (e altri 100 ottimizzando l'utilizzo della linea)?

Concetto n. 2
Attualmente i TGV francesi passano in Val di Susa a 160 Km/h. Nell'ipotetica galleria TAV, visti i criteri di sicurezza per l'attraversamento di gallerie così lunghe, passerebbero ad una velocità di 120 Km/h. Con la TAV i treni in Val di Susa andrebbero più lenti!

Concetto n. 3
Finchè la politica non penalizzerà con atti concreti il trasporto su gomma facendo riprendere quote al trasporto su rotaia, insistendo intanto sulla linea esistente, attualmente sotto utilizzata, ci rifiuteremo di parlare di nuove infrastrutture perchè è palese la loro inutilità.

Concetto n. 4
Non ci interessa nemmeno di discutere di compensazioni. E’ ora che in Italia si cominci a fare le opere davvero utili, sostenibili e compatibili con il territorio, non che opere invasive e distruttive diventano di colpo sostenibili quando sul piatto si mettono centinaia di milioni di euro.

A parlare il presidente della comunità montana della Val di Susa, un politico.

Da loro la consapevolezza e la presa di coscienza delle persone hanno permesso di esprimere una classe politica nuova. Portatrice dei valori della tutela del territorio e del bene comune.

Da noi? Come ragionano i nostri sindaci? Quali sono le loro priorità?
Sono in buona fede?


Questo video da www.antenneattive.org (realizzato dallo staff di Beppe Grillo)